Discorso nelle esequie di Antonio Paolucci

Firenze, Basilica della SS. Annunziata, 6 febbraio 2024.

Tanti fra noi riuniti qui oggi, nella basilica più cara agli artisti, per l’ultimo congedo ad Antonio Paolucci, sono stati suoi allievi in aule universitarie oppure sul territorio, dove mandava i giovani in formazione a conoscere, a toccare, a misurare il patrimonio artistico onnipresente nelle città e nei borghi, che costituiscono secondo la sua nota definizione il “museo diffuso” d’Italia.

Tanti di noi sono stati suoi colleghi e dipendenti nelle strutture fiorentine del Ministero dai molti nomi, oggi della Cultura, che lo ha avuto servitore fedele dal 1969, data del suo ingresso come ispettore storico dell’arte, fino al suo pensionamento nel 2006.

Tanti di noi hanno seguito le sue imprese a Roma, tra Collegio Romano e Vaticano.

Tanti fra noi lo hanno ascoltato dal vivo in conferenze e presentazioni, oppure attraverso lo schermo di un televisore o di un computer, nei suoi memorabili interventi su opere, luoghi, fatti d’arte.

E dunque ognuno ha di Antonio Paolucci, personalità brillante e sfaccettata come una gemma, un ricordo personale e speciale.

Ma certamente tutti gli siamo grati per il lavoro che ha svolto, per il “mestiere” – come lui lo chiamava – che si era scelto e forgiato sulla misura dei suoi straordinari saperi e talenti: proteggere le arti e l’ambiente storico di Firenze, della Toscana, dell’Italia; valorizzare il patrimonio anche attraverso le sue doti personali di espertissimo ed efficace comunicatore. Dunque credo, d’accordo col figlio Fabrizio, che il miglior modo per ricordarlo oggi sia tracciare rapidamente il profilo della sua figura professionale, rendendo omaggio al suo percorso eccezionale in quel mestiere di cui era così innamorato da sostenere – glielo abbiamo sentito dire – che fosse “il più bello del mondo”.

Da storico dell’arte di grandi doti e di raffinata formazione qual era, laureato a Firenze con Roberto Longhi (l’ultimo laureato di Longhi!) e specializzato a Bologna con Francesco Arcangeli, avrebbe potuto intraprendere con successo qualsiasi carriera di ricercatore, di docente, di scrittore: ma, come dicevo, scelse di dedicare tutta la sua inesauribile energia intellettuale e fisica alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale del nostro paese.

Riminese per nascita ma fiorentino per scelta, entrò come ispettore storico dell’arte nella Soprintendenza di Firenze. Fu poi soprintendente a Venezia, Verona e Mantova, di nuovo a Firenze come soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze dove, oltre a coordinare gli interventi e le ricerche nel campo del restauro, scrisse la storia dei Laboratori di Restauro preso la Fortezza da Basso. Nel 1988 lo troviamo a capo della Soprintendenza ai beni artistici e Storici, destinata a diventare sotto la sua guida, dal 2002, la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino, il complesso autonomo dei musei statali d’arte rimasto in essere fino alla riforma del 2014, che annoverava le Gallerie degli Uffizi e dell’Accademia, il Museo Nazionale del Bargello, i Musei di Palazzo Pitti col Giardino di Boboli e altri ancora, in un sistema equilibrato che provvedeva alle esigenze dei grandi istituti museali, così come dei luoghi d’arte minori. Dal 1991 ebbi la fortuna di affiancarlo nel ruolo di Soprintendente vicario. 

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Nel 1995 e per metà del ’96 fu Ministro dei Beni Culturali nel “governo tecnico” presieduto da Lamberto Dini . Nel poco tempo che fu concesso a quel governo, riuscì a condurre in porto due imprese alle quali teneva particolarmente. La prima, a carattere nazionale, fu la conversione del titolo d’ingresso nei musei statali da “tassa” a “biglietto”: in apparenza una sottigliezza burocratica, in realtà un’innovazione che però riuscì ad aprire la strada dell’autonomia amministrativa dei musei, foriera di un epocale cambiamento. La seconda, dedicata a Firenze, fu il riscatto e l’acquisizione allo Stato dell’eccellente complesso di terreni, edifici e oggetti d’arte noto come “Eredità Bardini”, che era rimasto bloccato da una capziosa clausola testamentaria. Inoltre istituì la Commissione per lo studio del progetto dei “Nuovi Uffizi”, secondo l’aggiornata intitolazione di un progetto di ampliamento della galleria nel Complesso Vasariano. La messa a punto del progetto fu lunga e laboriosa, cosicché i primi cantieri divennero operativi solo nel 2006: ma quelle linee guida furono seguite da me e dai colleghi durante il mio mandato di Soprintendente nel tempo in cui ebbi l’onore di succedergli, dal 2006-2014, certo grazie alle indicazioni da lui stesso proposte al Ministro che mi nominò. Si lavorò così al recupero di numerosi ambienti per le nuove sale degli Uffizi e al decisivo adeguamento dei collegamenti verticali nel Complesso Vasariano. Nel frattempo si era svolto il concorso per l’uscita degli Uffizi, col risultato ben noto: la vittoria dell’architetto giapponese Arata Isozaki, la sospensione del progetto, poi la ripresa, l’abbandono e le dispute surreali che tuttora intralciano il percorso corretto e lineare prefigurato da Paolucci. Istituì i servizi d’accoglienza nei musei, prima inesistenti.

Dal 2004 al 2006 fu Direttore Regionale dei Beni Culturali della Toscana, così da estendere la sua competenza a tutto l’ambito della regione.

Sarebbe un compito eccessivo elencare le attività di tutela e di valorizzazione promosse da Paolucci in tutti i musei e nel territorio dei suoi vari ambiti di competenza, nonché la sua vicepresidenza del Consiglio Superiore del Ministero, dedicando il suo impegno ai musei di Stato sia al territorio ed esercitando su tutto quella tutela che, a suo dire, era l’architrave della normativa italiana in materia di beni culturali.

Ed elencare le sue iniziative in soccorso delle emergenze, come l’attentato dei Georgofili nel 1993 e il terremoto in Umbria nel 1997. Così come il suo operoso coinvolgimento in prestigiose istituzioni culturali a Firenze – ricordo la Fondazione Longhi, la Casa Buonarroti, il Museo Horne, l’Opera del Duomo-, in Italia dalle Scuderie del Quirinale ai Musei di San Domenico a Forlì, e nei circuiti internazionali. Senza dimenticare la sua partecipazione alla politica cittadina, come consigliere comunale.

L’anno dopo il pensionamento, nel 2007, fu chiamato a dirigere i Musei Vaticani. Da responsabile delle molteplici collezioni pontificie, condusse iniziative specifiche – tra queste il completamento del restauro della Cappella Paolina, con gli affreschi di Michelangelo, l’illuminazione e la climatizzazione della Cappella Sistina, il restauro di numerosi altri ambienti e capolavori d’arte – e introdusse significative innovazioni potenziando i settori della conservazione, della didattica e dell’accoglienza, come ha ricordato la direttrice Barbara Jatta.

Non si contano le sue pubblicazioni su grandi artisti del Rinascimento e su molti altri argomenti, i premi e i riconoscimenti ricevuti (lo ricordo Cavaliere di gran Croce e Legion d’Onore), le appartenenza accademiche, tra cui i Lincei. Solo, poiché lo stiamo salutando sotto l’egida dell’Accademia delle Arti del Disegno, mi piace ricordare che vi entrò da Accademico d’Onore nel 1974, 50 anni fa.

So che questa descrizione del cursus honorum di Antonio Paolucci è parziale e incompleta, ma spero sia sufficiente a ricordarci ancora una volta il suo profilo eccezionale di studioso, di funzionario, di dirigente, di politico nel senso più alto dell’impegno civile per la polis, la città terrena in cui abitiamo, nell’attesa speranzosa di transitare alla città di Dio.

Nulla infine, se non l’esperienza diretta dal vivo o tramite i media, può descrivere la sua formidabile capacità di condividere il sapere e la passione, attraverso una narrazione dell’arte che univa splendore oratorio e correttezza, fascino e rigore, suggestione e sostanza. Convincere gli ascoltatori e se possibile entusiasmarli, questo era il suo scopo dichiarato e invariabilmente, sempre, raggiunto: e faceva di lui un docente a tempo pieno, che aveva per uditorio la società intera.

A noi tutti che lo abbiamo conosciuto e frequentato restano nella memoria immagini icastiche: la preghiera mattutina (e mattiniera) in parrocchia, le lenta pedalata in bicicletta, i sigari stritolati sulla scrivania. E gli attimi privati: il divertimento condiviso, le sue sortite acute e spiazzanti, la sua cordiale umanità, talvolta ammantata di bonario cinismo. Sono ricordi segreti e personali, che custodiremo come tesori nella memoria e nel cuore.

Grazie, Antonio.

Cristina Acidini
Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno, della Fondazione Casa Buonarroti, della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte “Roberto Longhi”, dell’Opera di Santa Croce, Firenze